Punto 3) Sul diritto di non finire il libro
(“Come un romanzo” – Daniel Pennac)
E’
giusto? Non è giusto? E’ difficile dirlo
Le
ragioni di Pennac sono più che valide, ma…
Per
me è un punto d’orgoglio arrivare alla parola F I N E di una storia.
Nessuno mi obbliga a leggere un libro. Però nel momento in cui scelgo un’opera,
ritengo (per me) una forma di
rispetto nei suoi confronti arrivare alla conclusione.
Il
paragone, forse, non è del tutto calzante: si può dire che non finire un libro
era come quando da piccoli, per un capriccio, non si voleva finire una pietanza
sgradita, ma utile per la nostra crescita.
Ecco,
non terminare un volume potrebbe essere una mancata occasione di crescita.
Perché finire un libro?
Che
mi sia piaciuto o no, alla fine ne parlo con cognizione di causa (ed evito di incrociare qualsiasi altra cosa
di quell’autore).
Perché sottoporsi a tortura?
C’è
sempre una speranza, mentre si legge una vicenda noiosa, che all’improvviso le
cose cambino e che nell’ultima parte la qualità possa migliorare (il beato ottimismo di tenebrae…).
Non
ho la coscienza pulita (nghé).
Ricordo di sicuro due volte che non sono riuscito ad arrivare al T H E E N D.
La solitudine dei numeri primi. Azzeccato il titolo, non la struttura: in un
romanzo di formazione come si può pensare di saltare circa dieci anni (dai 17
ai 25) nel descrivere la vita dei protagonisti? Piantato lì dopo questa
considerazione. Non comprato, ma letto a domicilio.
Il senso di Smilla per la neve. Visto film in tv. Parte finale P E S A N T E. Ereditato volume per vie
traverse e interrotto più o meno nello stesso punto in cui consideravo il film
noioso (Smilla si imbarca clandestinamente sulla nave che la porterà alla
risoluzione del caso).
Probabilmente
mi sarà capitato anche altre volte, ma questi che ho citato sono i casi più
eclatanti.
Pubblicato il 20/7/2011 alle 10.5 nella rubrica diario.